Concept per Festival DiecixDieci 2022, Gonzaga


La cronaca richiede di aderire alla realtà, prevede limiti precisi e nomi propri; ha le sembianze fascinose o respingenti di un evento ripetibile, vicino nonostante la distanza culturale e chilometrica, coinvolge o perlomeno incuriosisce; soprattutto svela ciò che umanamente ci potrebbe capitare.
In che misura si concede ad una cronaca di ampliarsi, diramarsi in nuove tracce e diventare narrazione? Alla ricerca di che cosa si riavvolge il filo logico dei fatti fino a riconsiderare e rimontare lo scenario? 
Nei percorsi alternativi di Jack Latham c’è l’indagine, l’ipotesi che muove luoghi, tempi e personaggi; c’è una storia, ce ne sono molte altre. Nella configurazione del progetto – e di progetto non soltanto fotografico si tratta – confluiscono realtà, passaparola, febbri cospirazioniste e meccanismi psicologici; a valle, le diverse narrazioni vanno progressivamente mescolandosi pur rimanendo autonome.

La «confabulazione» è sintomatica di questa ambivalenza. Nella sua declinazione psicologica compare prima in ‘Sugar Paper Theories’ e connette gli elementi della storia originale – sei persone incriminate e condannate senza prove dalla polizia di Reykjavík – con lo studio sulle confessioni indotte ‘Memory Distrust Syndrome’. Mentre in ‘Parliament of Owls’ è il surreale complottismo americano a permeare con divise fantasiose, blitz notturni, grida e confabulazioni patologiche, la scena di un paese in mezzo ai boschi che ricorda una Twin Peaks in bianco e nero.

Il ruolo delle informazioni, vere o false, sposta sotto i nostri occhi il baricentro dei progetti. Più le fonti riproducono sé stesse, più difficile diventa unire i punti e disegnare una figura non distorta. Così come in ‘Estensione del dominio della lotta’ (Houellebecq, 1994) l’alter ego dell’autore, amareggiato, afferma: «Il mondo ha bisogno di tutto tranne che di informazioni supplementari», nelle immagini di Latham è palese come il mondo a noi vicino cerchi disperatamente l’equilibrio e la notizia della propria identità.
Concept per Festival DiecixDieci 2021, Gonzaga

Adattandoci, l'abbiamo assimilata, questa ricollocazione dei pensieri e delle nostre priorità. Una scansione temporale organizzata sulla comunicazione e sull'analisi dei dati ha governato passo passo i nostri ritmi; ed era facile, passeggiavamo in tondo. Una rappresentazione cartesiana ad ora fissa ha consegnato al nostro sguardo un'evidenza, una visibile risposta. Ma nella sovrabbondanza di notizie e di nozioni, nella massa dei parametri e degli indici, nell'immediatamente misurabile si è persa una poetica, gioiosa imprecisione. 

In un racconto sul mistero - misterioso fin dal titolo, ‘Le Horla’ - Maupassant fa dialogare il proprietario di una casa sulla Senna, tormentato dagli eventi incomprensibili che presso la magione gli succedono, e un monaco. L'incontro avviene all'alba, nel «gioiello di granito» di Mont Saint-Michel. E discorrendo di leggende e delle forze non visibili che scuotono comunque i nostri sensi, il religioso «saggiamente o scioccamente» cita il vento: «Vi è possibile vederlo?» - chiede il monaco. «Eppure il vento esiste, fischia, geme, il vento sradica e distrugge». 

La ricerca di qualcosa di invisibile, intesa come partecipazione più emotiva e misteriosa agli episodi della vita, prende forma e consistenza nel miracolo del nostro immaginario; lo strumento fotografico vi attinge, in apparenza ne chiarisce anche l'origine, ma quella condizione di mistero e di profonda intimità che di frequente ne pervade la sostanza, quella resta. È patrimonio di chi sente che non sempre è indispensabile sapere per intero, definire e calcolare: l'invisibile bisogna riconoscerlo secondo un altro ordine. Che è ordine, disordine, memoria e sparizione. 

“Ningbo Polytechnic”, di Simone Mizzotti
Festival DiecixDieci 2018, Ex Convento, Gonzaga


[…] Zhu Jian si muove come se temesse di sbagliare direzione; sta a Ningbo da due anni, fra non molto – senza grandi cerimonie – ne festeggerà diciotto. Pensa di iscriversi al corso di guida nel campus, anche se difficilmente gli servirà l’auto o potrà mantenerne la spesa. Finito di studiare, tutti i giorni, passa ore esercitandosi al ping-pong; non ha ancora una ragazza e francamente non gli importa. Ieri il suo nuovo insegnante italiano ha proposto alla classe di fotografare una storia, un’idea, uno spunto qualsiasi; un modo per guardarsi meglio intorno o farlo con un altro metro. Lui al momento ha la testa svuotata, i suoi passi si perdono incerti nel supermercato del campus […]

Simone Mizzotti ha tenuto lezioni di fotografia a Ningbo, nella Cina orientale, fra il 2013 e marzo 2014. Zhejiang, di cui Ningbo è prefettura, ha all’incirca gli abitanti dell’Italia. Tutt’attorno al politecnico di Ningbo gli edifici per alloggi si moltiplicano in fretta: mentre all’interno del campus il ritmo rimane legato a scadenze e passaggi vitali plausibili, fuori dall’orizzontalità e dagli spazi di manovra condivisi cresce un mondo strettamente verticale, una continua elevazione che conduce da sistema a una sotterraneità dell’esistenza. Il campus rappresenta una città nella città, che sulla leva di un ambiente architettonico più cauto marca silenziosamente la distanza dall’esterno. Prima di entrare nell’articolato istogramma cinese, pur con tutti i sentimenti contrastanti generati dal futuro circostante, il politecnico di Ningbo dà la possibilità di regolare il proprio passo o di pensarci ancora su.

"Lalbania", di Pietro Millenotti
Fotografia Europea 2017, Ateliers ViaDueGobbiTre, Reggio Emilia


Com’è fatta l’Albania? In che misura conosciamo la sua storia anche recente? Sappiamo, magari, di alcune sue spiagge, o della moltitudine di bunker che punteggiano l’intero territorio del paese ma ci sfugge, ed è un peccato, il cambiamento; e nel cambiamento, la compresenza di un peso pur sempre vicino, quasi materia di riferimento, e di prospettive che vanno aggiustandosi in corsa, verso una definizione più esatta e più ampia. Soprattutto più europea.
Allora "Lalbania" - parafrasando Gianni Amelio e la pellicola che forse ricordiamo - è un’intuizione minima, un’idea del cambiamento, una scoperta leggermente polverosa e da svelare ulteriormente; è un modo di raccogliere le tracce di un percorso sconosciuto ma del quale si ha memoria. 

"Sono finiti in prigione", di Riccardo Freddi
Zenone Contemporanea, Reggio Emilia, ottobre 2012




Si percepisce una punta di insano eroismo, un sottile sussulto emotivo, fronteggiando a testa alta questa serie di ritratti: assassini, stupratori, mostri e macellai, delinquenti d’ogni sorta che a fatica tolleriamo sulla piattaforma umana.
Ma c’è anche chi in prigione ci è finito per un masterplan tutt’altro che divino (Bartolomeo Vanzetti, Lee Harvey Oswald) o ancora chi in cella è passato soltanto di sbieco e per cose da nulla (è il caso del celebre attore statunitense Woody Harrelson).
Non c’è nessun tipo di intento elegiaco – ci rassicura l’autore; nessuna volontà di ricalcare toni eroici. Traspare certo una fascinazione fisiognomica, ma resta in sottofondo, nota a margine di un quadro più diretto.
Piuttosto c’è l’idea di soffermarsi ad osservare questi volti, ritrovarvi una misura.
Scomporli, decifrarli, riassemblarli.
Procedendo per severi aggiustamenti, per minuscole importanti pennellate, alla ricostituzione di una pura identità; pura perché setacciata, filtrata dai fatti, mondata dal male.
Nasce un carattere nuovo, una nuova realtà. Lo sguardo vuoto e pieno dei soggetti di reato si rimette in carreggiata, ridiventa giustamente quel che è.
Ma contemporaneamente – su un setaccio parallelo e speculare – si procede anche a ritroso: prima si acquisisce un documento, ossia la foto segnaletica, che è limpida, neutrale, un dato esatto (in linea di principio, perlomeno); poi si sposta il documento ad un istante indefinito, quasi astratto, in un’epoca a metà fra il dagherrotipo (la stampa all’albumina, meglio ancora) e certe luci di Velázquez.
La pura identità riprende corpo, si tramuta nuovamente in suggestione.
È l’istante della fine, del finire; l’attimo in cui si biforca, in maniera ufficiale, un intero vissuto.
Ma siamo, allo stesso momento, al di fuori del tempo.
Ed è in questa sospensione che l’autore fissa in volto i suoi soggetti e li immortala.
Così ritorniamo, osservati noi stessi da questi potenti ritratti, alla punta di insano eroismo che lega chi ha infranto la norma e chi invece, dal male, si sente all’incirca al riparo.


"My ToYs", di Ingrid Russo


Sono cose in piena regola, i My ToYs: ideali e materiali, definite eppure non classificabili.
Nascono mobili, come regalo da fare agli amici, cose create, finite e donate. Per declinarsi più tardi in community, comunità immaginaria, espandibile, potenzialmente infinita; affiancata poi da gruppi di persone in carne ed ossa, estimatori di settore, appassionati occasionali, nuovi amici.
Sono figure meticce, mixate, irreali, capaci però di dissolvere quella cortina che spesso distingue e separa due mondi: l’aeroporto fantasioso e roboante dei bambini e la torretta di controllo degli adulti; capaci di rimettere in rapporto questi luoghi della mente, questi poli alla deriva (poli in dialogo costante, viceversa, nel paese da cui sorge quest’idea del kawaii, del dolce-leggero-bizzarro, ossia il Giappone contemporaneo); capaci essenzialmente di passare un’espressione, un sentimento, un’attitudine alla vita.
Sono soprattutto cose uniche, cose clonabili ad occhio, al di fuori del concetto pervasivo di prodotto, serie, cosa omologata strettamente funzionale. Perché il taglio – se succede di rifare un certo toy – disegna un angolo più acuto o un rigo appena più abbondante, perché i punti del cucito si dispongono secondo un altro ritmo, e se la stoffa la si trova di un colore differente può andar bene, addirittura può andar meglio; cambierà un accostamento, una livrea, cambierà – ancora una volta – il carattere del personaggio.
Ciò che rimane, incorrotta e brillante, è la singolarità di ogni figura; quella natura di cosa pacifica e benaugurante, che in un contesto sociale – massimizzando il pensiero di Ingrid – potremmo tradurre nel sogno di vivere serenamente, alla pari, le proprie realtà.
Accompagnati, guidati, accuditi pur sempre da piccole e sane irrealtà.